Intervista alla Professoressa Teresa Fiore De Lucia

Nel cinquantesimo anniversario della scomparsa di TOMMASO FIORE

Massaro Editore ha organizzato un incontro con la prof.ssa

Teresa Fiore de Lucia, figlia di Tommaso Fiore

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Intervista condotta dal dott. Nicola D’Alessandro

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TOMMASO FIORE

Umanista, intellettuale, militante della politica e della società di Puglia.

Socialista, antifascista, subì anni di carcere e la morte di un figlio.

Le sue attenzioni furono rivolte soprattutto alle condizioni disumane non solo nella sua città natale ma nell’intera Puglia che percorreva in treno.

 

Professoressa Fiore, ha ricordi dei nonni paterni e del rapporto che avevano con suo padre?

Non ho conosciuto i nonni, ma so quanto mio padre li avesse amati e rispettati.

Posseggo una sua fotografia, loro dedicata in cui si dice “dolente di non essere come loro”.

Della madre raccontava della sua laboriosità, di quanto lavorasse al telaio, da mattina a sera per 4 soldi al giorno e di quando, appena sposata, si accorse delle piaghe che mio nonno aveva sulle spalle trasportando tufi.

 

Le ha mai parlato dei suoi anni in seminario?

Gli anni del Seminario a Conversano furono determinanti per il futuro di mio padre.

Studiava come un matto, leggeva di tutto, quel che riusciva a trovare, negli anni addirittura traduceva dal latino tutto Virgilio e dal francese, fra gli altri, Victor Hugo.
Ma, egli raccontava, fu anche il suo”carcere”, dal momento che era perseguitato dal Rettore che mal sopportava la sua bravura, la sua prontezza nel rispondere, le sue letture. Raccontava particolarmente di quando, sorpreso a leggere la storia del Concilio di Trento di Fra’ Paolo Sarpi, il Rettore convocò nel cortile tutti i 250 convittori e, additandolo, gridò: “Tu finirai in carcere!”
Anatema che gli veniva in mente tutte le volte che in carcere era finito davvero!

 

Suo padre sostenne da privatista l’esame di maturità e, grazie a una borsa di studio, si iscrisse a Lettere e Filosofia a Pisa. Ci può raccontare di quel periodo?

Aveva vinto, nel 1903, una borsa di studio per la Scuola Normale di Pisa e si iscrisse alla Facoltà di Filosofia e Lettere dove insegnava Giovanni Pascoli, che aveva ascoltato già a Conversano. Anzi lui racconterà poi che “splendeva, irraggiando la sua luce in ogni luogo”. Racconterà che il poeta, titolare della cattedra di Grammatica Latina e Greca, in  realtà non insegnava Grammatica ma Poesia. Seduto non alla cattedra ma ad un tavolo con attorno una decina di alunni, incantava leggendo Omero.

A Pisa mio padre non aveva vita facile, non aveva molti soldi e quelli che suo padre con enormi sacrifici gli mandava, gli servivano per acquistare libri, perché continuava a leggere e a studiare per conto suo, mentre frequentava i corsi liberi di Lingua Inglese e Tedesca. Si laureò nel 1907 con una tesi su Platone.

 

Alcuni testimoni hanno riferito che Suo padre girava per Taranto con un garofano rosso all’occhiello della giacca. Che anni erano,  esporre in bella vista proprio quel fiore aveva un preciso significato?

Non credo avesse un significato politico, non era ancora il simbolo del PSI cui aveva aderito dopo il Partito d’Azione. I garofani rossi, certo non bianchi, gli piacevano, finché è vissuto ce n’era un vaso pieno nel suo studio…Così a Taranto, ma non andava in giro col garofano all’occhiello, ma ne regalava uno allo studente più bravo durante gli esami di Maturità dei quali era Presidente. La stessa cosa a Torino ed il Corriere della Sera gli dedicò un articolo.

 

Tommaso Fiore collaborò con il settimanale politico La Rivoluzione liberale di
Piero Gobetti
.Vi collaborarono anche Luigi Einaudi, don Sturzo, Lelio Basso, Guido De Ruggero, il filosofo Angelo Crespi, Giuseppe Stolfi, Bernardo Giovenale, Salvemini. La battaglia contro il fascismo divenne la tematica primaria della rivista che fu costretta a chiudere nel novembre 1925.

Collaborò anche con  la rivista socialista Quarto Stato, fondata da Pietro Nenni e Carlo Rosselli. Altri collaboratori erano Lelio Basso, Rodolfo Morandi, Giuseppe Saragat. Di chiara impronta antifascista, ebbe vita breve. Il primo numero fu pubblicato il 27 marzo 1926, l’ultimo  il 30 ottobre dello stesso anno. Insomma, suo padre rischiava di continuo.

Credo che per mio padre fosse un dovere morale continuare. Non ha mai pensato ad eventuali rischi. Scriveva in un articolo su Critica politica che confermava il suo giudizio sul Fascismo, “un fenomeno di violenza”.

Aveva sentito lo stesso dovere, quando, sposato da due anni, era partito come interventista  sul Carso e, dopo Caporetto, era stato fatto prigioniero a Schwarmstedt.

 

Tre giorni dopo la caduta di Mussolini, il 28 luglio 1943, qui a Bari, vi fu la famosa strage di via dell’Arca. Furono feriti tanti studenti che manifestavano pacificamente reclamando la liberazione dei prigionieri politici, tra questi Suo padre e lo storico della Filosofia Guido De Ruggero. Tra i manifestanti c’era anche il giornalista Franco Sorrentino e il fratello. Persero la vita venti studenti, tra questi proprio Suo fratello Graziano. Cosa ricorda di quella tragedia e della reazione di Suo padre?

Il giorno dopo avrei compiuto cinque anni. Ma ci sono dei ricordi indelebili, delle scene nella memoria che rimangono scolpite. Quella mattina a casa eravamo mia madre, le due mie sorelle Franca e Melisenda, mia cugina Rosina, figlia della sorella di mio padre, che viveva da anni con noi e che aveva vissuto la nostra storia recente di persecuzioni e di continue perquisizioni da parte dell’OVRA. Mio fratello Enzo era agli arresti nella caserma Picca per attività antifascista come ufficiale, con una condanna alla fucilazione, Vittore stava tornando da Copertino, dove già era stato confinato, liberato e rimesso agli arresti; Graziano, che a marzo aveva compiuto 18 anni e già conosceva il carcere, era uscito per organizzare, con il prof. Fabrizio Canfora ed i suoi giovani amici, un corteo pacifico, con regolare autorizzazione, che andasse incontro ai detenuti politici liberati, mio padre, il filosofo Guido Calogero, Guido De Ruggero, storico della Filosofia, il futuro Magistrato Michele Cifarelli.

Era, comunque, per noi una bella giornata, avremmo riabbracciato nostro padre! Suonò l’allarme, ci precipitammo in strada… Mio padre, uscito dal carcere, seppe lungo il percorso della sparatoria, si diresse verso l’attuale Università, sede allora del Policlinico: fu lui a riconoscere Graziano per terra, sporco e coperto di sangue, e rimase immobile con le sue scarpe in mano, mentre lo raggiungevano i miei due fratelli. A casa mia madre, che perse la parola per sei mesi.

 

Dopo la Guerra, Tommaso Fiore è stato docente di Lettere Latine nell’Università degli Studi Bari e Provveditore agli Studi. In quegli anni lo storico Gabriele Pepe era già molto noto. Hanno avuto rapporti di lavoro? Cosa ricorda di quel periodo?

Lo storico Gabriele Pepe, docente di Storia Medievale, era spesso ospite a casa mia. Ricordo negli anni ‘50 quando, dopo pranzo, papà ed io lo accompagnavamo in albergo. Lo accomunavano l’antifascismo ed il socialismo.

Ma nelle lezioni di mio padre non erano quelli i temi, bensì gli autori latini che aveva sempre amato e tradotto, Ovidio e soprattutto Virgilio.

Già in pieno fascismo era stato invitato a tenere a Perugia una ”commemorazione” di Virgilio dalla Reale Accademia d’Italia dopo aver pubblicato “La poesia di Virgilio”, in cui rivoluzionava la figura di Enea, vista dal fascismo come vincitore, in vinto.

Gli anni come Provveditore agli Studi furono faticosi .Lui parlava di un “ingrato compito” ricevuto dal Ministro Adolfo Omodeo: si trattava di defascistizzare un ambiente ed una mentalità corrente. Rimangono note le sue “circolari” agli insegnanti, quella, per esempio, in cui li spinge ad insegnare con tutte le loro “energie” o l’altra, ai Presidi, l’8 marzo, in cui dice di permettere che le insegnanti si allontanino dalla scuola per eventuali manifestazioni.

 

 

Poco prima della sua scomparsa, intese donare il proprio archivio alla Biblioteca Nazionale di Bari ove sono confluite la biblioteca personale e le altre carte relative al primo e secondo dopoguerra, una raccolta monumentale. Può dirci il motivo di tale decisione? Quante lettere vengono conservate?

Molti anni prima mio padre, nel 1924, aveva fatto parte del Consiglio di Amministrazione della Biblioteca Sagarriga Visconti. Dal ’43 al ’50 se ne era occupato come Commissario straordinario per la ricostruzione. Era naturale la sua donazione a quella che era diventata Biblioteca Nazionale. Quale sede migliore per le sue 13mila lettere, importantissime quelle con Benedetto Croce, Gaetano Salvemini, Sandro Pertini, don Lorenzo Milani! La particolarità, e quindi l’aiuto per un eventuale studioso, era che oltre alla sua “minuta” c’erano anche le risposte!

 

 

L’Istituto pugliese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea di Bari custodisce circa 600 lettere del periodo 1924-1926, la corrispondenza con i familiari nel periodo della clandestinità (1936-1943), la documentazione dell’attività antifascista. Rammenta qualche lettera in particolare?
Conservate ancora copie od originali di qualche lettera particolarmente significativa?

L’I.P.S.I.C. è stata una creatura di mio padre. Dopo la sua morte tutta la nostra famiglia fu d’accordo per una donazione all’Istituto diretto dal prof. Vito Antonio Leuzzi, infaticabile e profondo conoscitore delle opere di mio padre.
Tenevamo per noi gli originali dei suoi scritti, ma l’anno scorso abbiamo deciso di donare anche quelli perché nell’Istituto ci sono molti giovani ricercatori che potrebbero studiarli. Noi abbiamo le lettere personali, una corrispondenza molto importante perché mio padre aveva l’abitudine di descriverci, nei suoi viaggi, quello che, una volta tornato, sarebbe stato un suo libro.

Così è nato “Al paese di utopia”, o “I corvi scherzano a Varsavia” o “Sull’altra sponda”, i suoi viaggi in Russia, in Polonia, in Albania.

 

 

In  occasione del 50° anniversario della sua morte, il Comitato tecnico scientifico ‘Tommaso Fiore’ e il Comitato ‘Fiore 50’ di Altamura hanno organizzato un fitto programma di manifestazioni. Ce ne può parlare?

Il Comitato, formato da studiosi ed estimatori di mio padre, è nato a gennaio ad Altamura e si propone di approfondire i suoi vari aspetti organizzando degli incontri periodici per tutto il 2023. Il primo è stato proprio sul suo antifascismo, via via su Tommaso Fiore umanista oppure amministratore o viaggiatore, oppure sui suoi rapporti con Gobetti o Salvemini. Tutto questo con mostre di materiali o di quadri di pittori che hanno dipinto “pagine visive” tratte dai libri di mio padre, come Claudio Vino.

Indimenticabile la serata del 4 giugno, giorno della morte di mio padre, dell’esecuzione nel Teatro Mercadante, fra l’altro, dell’Inno della Libertà le cui parole erano state scritte da lui nel ’42, da parte del noto maestro e compositore Damiano D’Ambrosio. Tutta la nostra famiglia è grata a questo Comitato, in primis a Michele Ventricelli, Lucia e Nino Perrone, Michele Saponaro, perché si è ricominciato a parlare di mio padre e giustamente nel suo paese natale.

 

 

Negli anni ’20 Tommaso Fiore è stato anche sindaco di Altamura. Nel Maggio 2021 la scrittrice Bianca Tragni, con una lettera aperta indirizzata a Rosa Melodia, sindaco della città, sollecitava la realizzazione di un monumento programmato anni addietro, da collocare all’interno della villa comunale. Ci sono stati sviluppi nel frattempo?

Il comitato è affiancato dalla scrittrice Bianca Tragni che da molti anni si è occupata di mio padre nei suoi scritti. La sua battaglia per la prosecuzione di un progetto già approvato in Comune per una statua nella cosiddetta ”villa” continua: ci sono stati due commissari prefettizi ed ora il nuovo Sindaco ha promesso il suo interessamento.

 

Nel 1952 Suo Padre si aggiudicò il Premio Viareggio con il suo volume “Un popolo di formiche”.

Quali reazioni provocò quella pubblicazione provocò? 

Il primo ad esser sorpreso fu lo stesso mio padre che, ricordando quei giorni a Viareggio s’interroga sul perché abbiano dato il Premio al “cafone di Puglia”.
”Il popolo di formiche” consiste in quattro lettere indirizzate a Piero Gobetti che gli aveva chiesto una sua collaborazione su Rivoluzione liberale ed altre due a G. Gandale. Mio padre scrive ad un torinese, senza alcuna polemica con il nord, della sua Puglia, diremmo oggi come un reportage. Ci sono pagine che affascinano per la loro liricità. Il libro fu accolto molto bene dalla critica del tempo.

 

 

“Chi mai poteva credere che all’inferno avrei avuto tanti trattamenti come un lord, solo col misero guadagno di lasciare andare l’anima mia per pochi minuti a consumarsi nella fornace ardente? In terra invece i signori agricoltori per cinquant’anni se ne sono serviti, del mio corpo, senza essere mai contenti del lavoro che ho fatto e senza dire nemmeno una volta grazie, del lavoro straordinario che facevo e che non mi spettava”.

Questo pensò tra sé il contadino pugliese, protagonista di I cafoni all’inferno pubblicato da suo padre nel 1955. Qui è condensato il motivo del suo impegno meridionalista. Chi erano I “cafoni” per Tommaso Fiore?

I cafoni erano i contadini da sempre umiliati, con una tradizione di stenti ed oppressione, come scriverà un critico e per mio padre “quelli che vivono di sparagno, pazienza e rassegnazione”.

 

 

Tommaso Fiore ha avuto rapporti con Giuseppe Di Vittorio? Cosa ricorda al riguardo?

Nel libro “Formiconi di Puglia” mio padre ne fa il suo ritratto. Si erano conosciuti a
Bari, nel ’21, si erano visti al confino di Ventotene, si rivedranno alle grandi assemblee. Di Peppino, il capocafone, come veniva affettuosamente chiamato, lodava tutta la sua storia, l’esser stato costretto ad otto anni a lavorare la terra, la determinazione con cui era riuscito a diventare quello che era. Lo sostenne con grande impegno politico e culturale sulla stampa socialista, sull’
Avanti!, sul Lavoro, diretto a Genova da Pertini, ed in seguito su Mondo Operaio.

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N. D’Alessandro, Intervista a Teresa Fiore De Lucia, Massaro Editore