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“Non ho conosciuto i nonni, ma so quanto mio padre li avesse amati e rispettati.
Posseggo una sua fotografia, loro dedicata in cui si dice “dolente di non essere come loro”.
Della madre raccontava della sua laboriosità, di quanto lavorasse al telaio, da mattina a sera per 4 soldi al giorno e di quando, appena sposata, si accorse delle piaghe che mio nonno aveva sulle spalle trasportando tufi”.
“Gli anni del Seminario a Conversano furono determinanti per il futuro di mio padre.
Studiava come un matto, leggeva di tutto, quel che riusciva a trovare, negli anni addirittura traduceva dal latino tutto Virgilio e dal francese, fra gli altri, Victor Hugo.
Ma, egli raccontava, fu anche il suo”carcere”, dal momento che era perseguitato dal Rettore che mal sopportava la sua bravura, la sua prontezza nel rispondere, le sue letture. Raccontava particolarmente di quando, sorpreso a leggere la storia del Concilio di Trento di Fra’ Paolo Sarpi, il Rettore convocò nel cortile tutti i 250 convittori e, additandolo, gridò: “Tu finirai in carcere!”
Anatema che gli veniva in mente tutte le volte che in carcere era finito davvero!”
Aveva vinto, nel 1903, una borsa di studio per la Scuola Normale di Pisa e si iscrisse alla Facoltà di Filosofia e Lettere dove insegnava Giovanni Pascoli, che aveva ascoltato già a Conversano. Anzi lui racconterà poi che “splendeva, irraggiando la sua luce in ogni luogo”. Racconterà che il poeta, titolare della cattedra di Grammatica Latina e Greca, in realtà non insegnava Grammatica ma Poesia. Seduto non alla cattedra ma ad un tavolo con attorno una decina di alunni, incantava leggendo Omero.
A Pisa mio padre non aveva vita facile, non aveva molti soldi e quelli che suo padre con enormi sacrifici gli mandava, gli servivano per acquistare libri, perché continuava a leggere e a studiare per conto suo, mentre frequentava i corsi liberi di Lingua Inglese e Tedesca. Si laureò nel 1907 con una tesi su Platone.
Non credo avesse un significato politico, non era ancora il simbolo del PSI cui aveva aderito dopo il Partito d’Azione. I garofani rossi, certo non bianchi, gli piacevano, finché è vissuto ce n’era un vaso pieno nel suo studio…Così a Taranto, ma non andava in giro col garofano all’occhiello, ma ne regalava uno allo studente più bravo durante gli esami di Maturità dei quali era Presidente. La stessa cosa a Torino ed il Corriere della Sera gli dedicò un articolo.
Credo che per mio padre fosse un dovere morale continuare. Non ha mai pensato ad eventuali rischi. Scriveva in un articolo su Critica politica che confermava il suo giudizio sul Fascismo, “un fenomeno di violenza”.
Aveva sentito lo stesso dovere, quando, sposato da due anni, era partito come interventista sul Carso e, dopo Caporetto, era stato fatto prigioniero a Schwarmstedt.
Il giorno dopo avrei compiuto cinque anni. Ma ci sono dei ricordi indelebili, delle scene nella memoria che rimangono scolpite. Quella mattina a casa eravamo mia madre, le due mie sorelle Franca e Melisenda, mia cugina Rosina, figlia della sorella di mio padre, che viveva da anni con noi e che aveva vissuto la nostra storia recente di persecuzioni e di continue perquisizioni da parte dell’OVRA. Mio fratello Enzo era agli arresti nella caserma Picca per attività antifascista come ufficiale, con una condanna alla fucilazione, Vittore stava tornando da Copertino, dove già era stato confinato, liberato e rimesso agli arresti; Graziano, che a marzo aveva compiuto 18 anni e già conosceva il carcere, era uscito per organizzare, con il prof. Fabrizio Canfora ed i suoi giovani amici, un corteo pacifico, con regolare autorizzazione, che andasse incontro ai detenuti politici liberati, mio padre, il filosofo Guido Calogero, Guido De Ruggero, storico della Filosofia, il futuro Magistrato Michele Cifarelli.
Era, comunque, per noi una bella giornata, avremmo riabbracciato nostro padre! Suonò l’allarme, ci precipitammo in strada… Mio padre, uscito dal carcere, seppe lungo il percorso della sparatoria, si diresse verso l’attuale Università, sede allora del Policlinico: fu lui a riconoscere Graziano per terra, sporco e coperto di sangue, e rimase immobile con le sue scarpe in mano, mentre lo raggiungevano i miei due fratelli. A casa mia madre, che perse la parola per sei mesi.
Lo storico Gabriele Pepe, docente di Storia Medievale, era spesso ospite a casa mia. Ricordo negli anni ‘50 quando, dopo pranzo, papà ed io lo accompagnavamo in albergo. Lo accomunavano l’antifascismo ed il socialismo.
Ma nelle lezioni di mio padre non erano quelli i temi, bensì gli autori latini che aveva sempre amato e tradotto, Ovidio e soprattutto Virgilio.
Già in pieno fascismo era stato invitato a tenere a Perugia una ”commemorazione” di Virgilio dalla Reale Accademia d’Italia dopo aver pubblicato “La poesia di Virgilio”, in cui rivoluzionava la figura di Enea, vista dal fascismo come vincitore, in vinto.
Gli anni come Provveditore agli Studi furono faticosi .Lui parlava di un “ingrato compito” ricevuto dal Ministro Adolfo Omodeo: si trattava di defascistizzare un ambiente ed una mentalità corrente. Rimangono note le sue “circolari” agli insegnanti, quella, per esempio, in cui li spinge ad insegnare “con tutte le loro “energie” o l’altra, ai Presidi, l’8 marzo, in cui dice di permettere che le insegnanti si allontanino dalla scuola per eventuali manifestazioni.
Molti anni prima mio padre, nel 1924, aveva fatto parte del Consiglio di Amministrazione della Biblioteca Sagarriga Visconti. Dal ’43 al ’50 se ne era occupato come Commissario straordinario per la ricostruzione. Era naturale la sua donazione a quella che era diventata Biblioteca Nazionale. Quale sede migliore per le sue 13mila lettere, importantissime quelle con Benedetto Croce, Gaetano Salvemini, Sandro Pertini, don Lorenzo Milani! La particolarità, e quindi l’aiuto per un eventuale studioso, era che oltre alla sua “minuta” c’erano anche le risposte!
L’I.P.S.I.C. è stata una creatura di mio padre. Dopo la sua morte tutta la nostra famiglia fu d’accordo per una donazione all’Istituto diretto dal prof. Vito Antonio Leuzzi, infaticabile e profondo conoscitore delle opere di mio padre.
Tenevamo per noi gli originali dei suoi scritti, ma l’anno scorso abbiamo deciso di donare anche quelli perché nell’Istituto ci sono molti giovani ricercatori che potrebbero studiarli. Noi abbiamo le lettere personali, una corrispondenza molto importante perché mio padre aveva l’abitudine di descriverci, nei suoi viaggi, quello che, una volta tornato, sarebbe stato un suo libro.
Così è nato “Al paese di utopia”, o “I corvi scherzano a Varsavia” o “Sull’altra sponda”, i suoi viaggi in Russia, in Polonia, in Albania.
Il Comitato, formato da studiosi ed estimatori di mio padre, è nato a gennaio ad Altamura e si propone di approfondire i suoi vari aspetti organizzando degli incontri periodici per tutto il 2023. Il primo è stato proprio sul suo antifascismo, via via su Tommaso Fiore umanista oppure amministratore o viaggiatore, oppure sui suoi rapporti con Gobetti o Salvemini. Tutto questo con mostre di materiali o di quadri di pittori che hanno dipinto “pagine visive” tratte dai libri di mio padre, come Claudio Vino.
Indimenticabile la serata del 4 giugno, giorno della morte di mio padre, dell’esecuzione nel Teatro Mercadante, fra l’altro, dell’Inno della Libertà le cui parole erano state scritte da lui nel ’42, da parte del noto maestro e compositore Damiano D’Ambrosio. Tutta la nostra famiglia è grata a questo Comitato, in primis a Michele Ventricelli, Lucia e Nino Perrone, Michele Saponaro, perché si è ricominciato a parlare di mio padre e giustamente nel suo paese natale.
Il comitato è affiancato dalla scrittrice Bianca Tragni che da molti anni si è occupata di mio padre nei suoi scritti. La sua battaglia per la prosecuzione di un progetto già approvato in Comune per una statua nella cosiddetta ”villa” continua: ci sono stati due commissari prefettizi ed ora il nuovo Sindaco ha promesso il suo interessamento.
Il primo ad esser sorpreso fu lo stesso mio padre che, ricordando quei giorni a Viareggio s’interroga sul perché abbiano dato il Premio al “cafone di Puglia”.
”Il popolo di formiche” consiste in quattro lettere indirizzate a Piero Gobetti che gli aveva chiesto una sua collaborazione su Rivoluzione liberale ed altre due a G. Gandale. Mio padre scrive ad un torinese, senza alcuna polemica con il nord, della sua Puglia, diremmo oggi come un reportage. Ci sono pagine che affascinano per la loro liricità. Il libro fu accolto molto bene dalla critica del tempo.
I cafoni erano i contadini da sempre umiliati, con una tradizione di stenti ed oppressione, come scriverà un critico e per mio padre “quelli che vivono di sparagno, pazienza e rassegnazione”.
Nel libro “Formiconi di Puglia” mio padre ne fa il suo ritratto. Si erano conosciuti a
Bari, nel ’21, si erano visti al confino di Ventotene, si rivedranno alle grandi assemblee. Di Peppino, il capocafone, come veniva affettuosamente chiamato, lodava tutta la sua storia, l’esser stato costretto ad otto anni a lavorare la terra, la determinazione con cui era riuscito a diventare quello che era. Lo sostenne con grande impegno politico e culturale sulla stampa socialista, sull’Avanti!, sul Lavoro, diretto a Genova da Pertini, ed in seguito su Mondo Operaio.
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N. D’Alessandro, Intervista a Teresa Fiore De Lucia, Massaro Editore